Criptovalute: l’utilizzo della Blockchain per garantire la trasparenza delle transazioni

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    Le criptovalute sono entrate nel nostro sistema commerciale nell’arco degli ultimi 15 anni ed hanno rappresentato un’innovazione di enormi proporzioni di cui stiamo tutt’ora osservando lo sviluppo, permettendo di effettuare transazioni tramite un sistema completamente decentralizzato che si appoggia sulla Blockchain.
    Queste hanno mostrato delle caratteristiche peculiari rispetto alla moneta tradizionale ed agli altri assets, fatto che le ha rese di difficile inquadramento. 
    L’utilizzo della Blockchain garantisce la trasparenza delle transazioni e la loro immodificabilità, aggiungendo ad esso la tutela della privacy dei contraenti che caratterizza tale strumento. Sin da subito tale novità si è invisa gran parte della comunità giuridica ed economica, la quale ha individuato potenziali fattori di rischio nella sua diffusione invocando a gran voce l’intervento dei regolatori. 

    In assenza di un controllo centrale inoltre il valore delle criptovalute risulta determinato unicamente tramite il meccanismo della domanda e dell’offerta, collegato perciò alla disponibilità del mondo moderno a cambiare le proprie abitudini, sostituendo i metodi di pagamento tradizionali con questi nuovi sistemi decentralizzati. 

    Le questioni sin ora accennate sono state la motivazione alla base della più famosa caratteristica delle criptovalute, ossia la volatilità. Infatti l’assenza di un organo centrale che possa, tramite interventi e scelte di carattere operativo-gestionale, influenzarne il valore ha reso le criptovalute, come precedentemente menzionato, totalmente dipendenti dal meccanismo della domanda e dell’offerta. Nel 2009 il tasso di cambio Dollaro/Bitcoin era superiore ai 1000 Bitcoin per Dollaro, valore incomprensibile se riletto alla luce dei dati attuali, e la capitalizzazione dell’intera criptovaluta è cresciuta dai 140 milioni di Dollari del 2012 fino ai 6 miliardi del 2013, con percentuali di Gain vertiginose, soprattutto rispetto al lasso di tempo intercorso. Ovviamente a tali crescite sono seguiti crolli profondi, che hanno visto il Bitcoin perdere anche il 50% del proprio valore in pochi giorni, al massimo poche settimane. Famoso fu il discorso di Mario Draghi, al tempo Presidente della BCE, sulle criptovalute, nel quale affermò ”Un euro oggi sarà un euro anche domani, il suo valore è stabile. Il valore di Bitcoin oscilla fortemente. Non definirei Bitcoin una moneta per questa ragione e per un’altra: l’euro è sostenuto dalla Banca Centrale Europea, il dollaro dalla Federal Reserve, le valute sono sostenute dalle banche centrali dei loro governi. Nessuno lo fa con Bitcoin.”

    La loro diffusione negli ultimi 10 anni è stata perciò fortemente ostacolata da timori di tale genere, ma di pari passo le criptovalute hanno trovato anche dei driver di crescita interessanti che ne hanno trainato lo sviluppo.

    In primis la caratteristica della tutela dell’identità dei soggetti facenti parte della transazione ne ha oggettivamente permesso la proliferazione negli ambiti “meno leciti” del nostro sistema commerciale, soprattutto in ambito informatico tramite il loro diffuso utilizzo per transazioni online o nell’ambito dei siti non indicizzati, il famoso Deep Web.Questo complice la digitalizzazione galoppante dell’ultimo decennio ha sicuramente dato alle cripto un importante platea di utenti che hanno contribuito ad aumentarne la domanda. Ciò ha prodotto un successivo aumento di valore, implementato peraltro nei casi di criptovalute ad emissione fissa o controllata, come il Bitcoin che ha un numero massimo di coin minabili, 21 milioni, che riesce a ripartire nel tempo tramite un meccanismo di halving. 
    Inoltre gli ultimi 10 anni hanno investito la realtà in cui viviamo di forti questioni nell’ambito proprio della tutela della privacy, sensibilizzando fortemente i consumatori sul tema e portandoli alla ricerca di garanzie maggiori sul tema anche tramite l’utilizzo delle criptovalute. 

    La pandemia ha poi evidenziato come in un periodo di crisi dell’economia reale a causa del blocco della produzione, probabilmente proprio a causa della loro decentralizzazione le criptovalute sono state oggetto di importanti rialzi, quasi diventando une forma di bene rifugio, similmente all’oro.
    Negli ultimi anni è sorta anche una forte polemica, in linea con il percorso iniziato a livello globale nel campo della tutela ambientale sui possibili risvolti dell’attività di mining. Degli studi rivelarono come il consumo energetico necessario per estrarre tali criptovalute fosse pari o addirittura superiore al consumo energetico necessario ad alimentare interi Stati. Tali giuste polemiche sono state driver di importanti ribassi di domanda e conseguentemente di valore per le stesse e motivo di riflessione per molti soggetti che hanno revocato la loro intenzione di accettare pagamenti in criptovalute per le sopraindicate ragioni. 

    Dovrebbe essere perciò chiaro, da quanto fino ad ora esposto, che la volatilità delle cripto è intrinseca, oltre che all’assenza di regolamenti e di autorità centrali che vigilino ed influiscano con le proprie politiche su di esse, anche alla loro novità, che apre di anno in anno a nuovi possibili campi di applicazione per esse, le quali ne aumentano la domanda e perciò il valore, ed a nuove possibili minacce da esse derivanti, le quali ne riducono la domanda e perciò il valore.

    Criptovalute e moneta

    La domanda principale che si affronta nel momento in cui ci si confronta con il tema delle criptovalute è spesso la seguente “le criptovalute sono delle monete?”. In effetti, dato che vengono usate per lo scambio di beni e servizi essendo esse accettate come metodo di pagamento, le criptovalute ricoprono in parte la funzione di mezzo di scambio ed in taluni casi sono considerate beni in grado di sostituire il denaro tradizionale nelle transazioni. Ma quali sono le caratteristiche che rendono il denaro tale?

    Citando un commento della Consob, al denaro ne vengono solitamente associate 3, quella di unità di conto, di mezzo di pagamento comunemente accettato e quella di deposito di valore.
    Per ciò che riguarda la funzione di unità di conto, essa è quantomeno difficile da rinvenire nelle criptovalute, a causa ovviamente della loro eccessiva volatilità. Citando la Consob “L'elevata volatilità delle criptovalute non consente sicuramente il corretto svolgimento della funzione ‘unità di conto: i prezzi delle principali criptovalute sono soggetti a fluttuazioni molto ampie, anche all'interno delle stesse giornate. Quindi è altamente inefficiente, per non dire impossibile, prezzare beni e servizi in unità di criptovalute.”.
    Considerazioni simili possono essere proposte sulla loro funzione di riserva di valore, che soffre anch’essa la citata volatilità, per quanto la decentralizzazione precedentemente citata renda le criptovalute sicuramente meno sofferenti di fronte alle dinamiche macroeconomiche che possono invece incidere pesantemente sui singoli Stati e sulle rispettive valute.

    Una riflessione più corposa è necessaria per quel che riguarda la funzione di mezzo di pagamento comunemente accettato. Infatti, senza che sia necessario recuperare ed indicare puntualmente la normativa, è dato di conoscenza comune che le monete che noi oggi chiamiamo tali, sono in realtà definibili come le “monete aventi corso legale nel territorio dello stato”. Tali monete possono essere utilizzate come mezzo di scambio poiché sono accettate da chiunque come mezzo solutorio delle obbligazioni.

    Le criptovalute non hanno corso legale nel territorio della Repubblica. Con tale frase lapidaria si vuole evidenziare il fatto che le criptovalute sono accettate per libera determinazione da parte degli operatori, e che non vi è alcun diritto né garanzia per i detentori delle stesse di poterle usare in futuro. Come più volte ripetuto precedentemente il valore di una criptovaluta dipende dall’incrocio, ad un determinato livello di prezzo, della domanda e dell’offerta della stessa in un dato momento sul mercato. Ergo se nessuno decidesse di accettare pagamenti in criptovalute, la loro domanda scenderebbe a zero, la loro diffusione la seguirebbe e così il loro valore. Per quanto perciò sia innegabile la loro funzione di mezzo di pagamento, si può almeno riconoscere come essa sia monca in alcune parti che caratterizzano invece le monete tradizionali, portando perciò ad individuare delle differenze tra quest’ultime e le criptovalute. 

    A conclusioni simili giunge la Consob stessa, spingendosi fino ad ipotizzare per esse una più semplice funzione di unità di scambio simile a quella della moneta tradizionale, ma senza le sue garanzie a livello normativo e senza la supervisione di un’autorità di vigilanza.
    Con l’introduzione della nozione di moneta elettronica in Italia dal Dlgs n. 45/2012, il quale la definisce all’art. 1 comma 2 come “il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso dietro ricevimento di fondi per effettuare operazioni di pagamento […] e che sia accettato da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente di moneta elettronica” ci si è chiesti se si potesse individuare in tale normativa quella applicabile alle criptovalute. Analizzandone la definizione si sono però riscontrate numerose problematiche di stampo pratico. 

    In primis essa viene definita come “valore monetario” e le criptovalute non sono riconosciute come moneta da alcuna previsione normativa, bensì accettate per libera scelta dei contraenti, al pari di ogni altro bene e/o servizio che può essere liberamente da chiunque scambiato, tramite un modello di transazione che esiste dai tempi del baratto. Se si considerasse ogni mezzo astrattamente idoneo a risolvere un’obbligazione come moneta si cadrebbe in un grave errore di comprensione, poiché le monete hanno caratteristiche chiare che sono state precedentemente esaminate. 

    Inoltre la dizione “il valore monetario memorizzato elettronicamente” sembra scontrarsi con la determinazione del valore delle criptovalute, il quale è totalmente legato all’incrocio domanda-offerta, poiché esse, in quanto decentralizzate, non sono garantite da riserve auree o beni in possesso di soggetti terzi, come gli Stati. Ciò porta ad escludere che le cripto siano valori monetari memorizzati, a meno che non si voglia sostenere che le criptovalute in realtà siano uno strumento rappresentativo di un valore che su di esse viene memorizzato, al pari delle carte prepagate.
    Tali considerazioni si legano a doppio filo all’ultima frase, nella quale si afferma che “sia accettato da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente di moneta elettronica”, periodo il quale sembra lasciare intendere che esse debbano intrinsecamente possedere la funzione solutoria di un’obbligazione di carattere generale, e che non basti invece l’astratta possibilità di esercitare questo ruolo su base volontaria. 

    Alla luce di tali considerazioni esse sono riconosciute come ben diverse dalla moneta tradizionale, ragion per la quale esse e gli emittenti sono esonerati dal rispetto dei criteri e dall’ottenimento delle autorizzazioni previste dal Testo Unico Bancario per gli emittenti moneta tradizionale.

    Criptovalute tra mezzo di pagamento e prodotto finanziario

    Le criptovalute perciò non sono monete nel senso tradizionale del termine ma hanno la funzione, in alcuni casi, di adempiere un’obbligazione, sostituendosi al denaro. Con il passare del tempo e complici anche i rendimenti importanti che hanno generato, ci si è però domandati se oltre alla funzione solutoria delle obbligazioni se ne affiancassero altre, nello specifico ci si è domandati se esse fossero considerabili quali “investimenti di natura finanziaria”.
    Per rispondere bisogna muovere dalla definizione degli “elementi di finanziarietà”, la quale, su insegnamento della Consob, richiede la compresenza di tre fattori:

    • un impiego di capitale;
    • un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria;
    • l’assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale.

    L’impiego di capitale è chiaramente presente nell’ambito delle criptovalute, le quali vengono acquisite a seguito di una transazione, così come esse sono di certo soggette ad un rischio, che l’acquirente si assume all’acquisto.

    Per quel che riguarda l’aspettativa di un rendimento di natura finanziaria, esso dipende dallo scopo dell’acquisto da parte dell’acquirente. Lo stesso infatti potrebbe acquisire le criptovalute allo scopo di eseguire tramite esse una o più transazioni o, come sempre più di frequente, allo scopo di detenerle e veder crescere il proprio valore.
    Nel secondo caso in esame, esse al momento della vendita genererebbero un rendimento dovuto unicamente dalla detenzione, il quale potrebbe dare riscontro al terzo fattore e permettere di ricondurle alla definizione di “investimenti di natura finanziaria”
    Nello specifico questi vengono trattati nell’articolo 1 comma 1 lettera u del T.U.F., dove i “prodotti finanziari” vengono definiti come “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”.

    Se perciò si arrivasse a ritenere che le criptovalute integrino gli “Elementi di finanziarietà”, esse rientrerebbero nella nozione di “prodotti finanziari” e ad esse sarebbe applicabile la loro normativa.
    Tali considerazioni teoriche hanno trovato riscontro nella giurisprudenza con la pronuncia n. 26807/2020 e con la pronuncia n. 44337/2021 della Corte di Cassazione Penale, sezione II.

    Nella prima, in motivazione, si legge quanto segue “Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poiché le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag.13 dell’ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che "chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%"; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF.”.

    La seconda, richiamando la prima appena citata, rinforza ulteriormente il concetto affermando come “questa Corte ha precisato (Sez. 2, Sentenza n. 26807 del 17/09/2020, De Rosa, Rv. 279590 - 01) che ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti di cui agli articoli 91 e seguenti TUF ("La CONSOB esercita i poteri previsti dalla presente parte avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché' all'efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali"), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all'articolo 166 comma 1 lett.c) TUF, (che punisce chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento); pertanto, allo stato, può ritenersi il bitcoin un prodotto finanziario qualora acquistato con finalità d'investimento: la valuta virtuale, quando assume la funzione, e cioè la causa concreta, di strumento d'investimento e, quindi, di prodotto finanziario, va disciplinato con le norme in tema di intermediazione finanziaria (articolo 94 ss.T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell'investimento.”.

    Da tali pronunce si evince che il dubbio precedentemente espresso era fondato, poiché in talune situazioni vi è il rischio concreto che la commercializzazione delle criptovalute, nel caso delle due sentenze riportate si trattava del Bitcoin, posta in essere tramite un determinato tipo di pubblicizzazione dell’acquisto, possa portare a considerare le stesse come prodotti finanziari ed a rendere applicabile la disciplina ad essi applicabile. Nello specifico, su insegnamento della Corte, tale assimilazione può sicuramente rinvenirsi in caso si pubblicizzi la criptovaluta in discorso ponendo l’accento sulla convenienza o meno dell’investimento dal punto di vista del ritorno atteso generabile dalla criptovaluta stessa, ed in generale quando la si reclamizzi come una vera e propria proposta d’investimento. 

    Ciò pone l’accento inoltre sulla natura delle criptovalute in sé, le quali non sono in ogni caso mezzi di pagamento ne integrano necessariamente le caratteristiche del prodotto finanziario.
    Il loro inquadramento dipende dalle finalità per le quali esse vengono distribuite dagli emittenti ed acquistate dai clienti. In caso la loro commercializzazione abbia le stigmate delle proposte d’investimento, esse ricadranno nella disciplina dei prodotti finanziari, con l’applicazione della disciplina di cui agli articoli 91 e seguenti del T.U.F. e con le conseguenze di cui all’articolo 166 T.U.F. in caso di mancato rispetto di tale normativa.

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